giovedì 24 aprile 2014

Alla scoperta della rupe di Campotrera, riserva naturale fra le terre matildiche

Per il giorno di Pasqua mi ero ripromesso di stare tranquillo: ore 9.30, devo uscire a comprare la Gazzetta di Parma per mio nonno, 91 anni, uno degli ultimi azionisti attivi del nostro bel giornale cittadino. Il sole è caldo, l'aria tersa, perché non fare un salto a vedere la Rupe di Campotrera sotto Canossa? Ho l'auto e qualche ora a disposizione prima di pranzo: scarponi e macchina fotografica nel baule, piede pesante lungo le strade con qualche inevitabile cadavere al volante, e in mezz'ora sono a Cerezzola, dove parcheggio.

Cerezzola
Il piccolo borgo medievale di Cerezzola è forse un po' troppo gonfiato dai vari pannelli didascalici: alla fin fine di medievale c'è una casa torre, con dentro un bed and breakfast... ma è giusto valorizzare. I cartelli per la rupe di Campotrera portano ad attraversare il nucleo (o meglio l'atomo) antico del borgo, passando sotto un'arcata lungo uno stradello ciottolato; si prosegue poi su una carrareccia pianeggiante che raggiunge le ultime case del paese.

Torre di Rossenella

Diatolite Rossa
Numerosi paletti con i segni bianco-rossi, cartelli di orientamento, pannelli didascalici ancora nuovi rendono agevole a tutti e interessante l'avvicinamento alla Riserva Naturale, risalendo dolcemente la vallatina verdeggiante chiusa dalle rocce rossastre della Rupe di Campotrera e della Torre di Rossenella. Si tratta di rocce ofiolitiche, di origine vulcanica, più diffuse fra le province di Parma e Piacenza; la loro presenza spicca sui terreni argillosi caratterizzati dai calanchi - tipici, questi, delle colline reggiane e modenesi - e dà vita a ecosistemi molto particolari, con rarità botaniche (piante grasse, fichi d'india nani), geologiche (datolite rosa), ornitologiche (specialmente farfalle).
Papilio Machaon

Per lungo tempo le ofioliti emiliane furono sventrate dall'estrazione mineraria: le cave, aperte fino a non molti anni fa, sono ancora ben visibili. Oggi gli affioramenti più significativi - come il monte Prinzera nel parmense e la stessa Rupe di Campotrera - sono preservati da riserve naturali, con percorsi didattici e sentieri dal sapore più montano che collinare. La primavera è la stagione migliore per venire da queste parti, per le rare fioriture e il lussureggiare sonoro della vegetazione.


La carraia (chiusa per fortuna alle moto) raggiunge un bel ponticello di legno, da cui si passa nell'area protetta. Tengo sempre la destra ai bivi, salendo con l'aiuto di buoni scalini in legno, e dopo aver costeggiato da vicino i primi affioramenti esco dal bosco presso la casupola/cantiere/discarica di un contadino. Una nuova carrareccia mi conduce alla base della rupe sotto la torre di Rossenella: potrei seguirla fino all'asfalto e raggiungere Rossena, ma ho l'idea malsana di puntare direttamente alla torre.


Attraverso un boschetto facendo fuggire un paio di caprioli e in breve sono alla base di un facile canale che risale fra le fasce ofiolitiche. La roccia come sospettavo è quanto di più marcio si possa tenere fra le mani: laddove ci sono ciuffi d'erba o pianticelle - spesso con le spine - mi conviene aggrapparmi a loro, e stare molto attento a dove appoggio i piedi... un ruzzolone non sarebbe certo fatale, ma preferisco risparmiarmelo.

Pianta grassa sulle ofioliti della rupe
Raggiungo con un certo sollievo un prato ripido che in breve mi conduce alla torre: un'austera costruzione medievale, legata al sistema difensivo della vicina Canossa. L'elegante castello di Rossena, giusto di fronte, mostra invece molte aggiunte dei secoli successivi, quando fu trasformato in residenza. Faccio il giro della torre, passo fra la recinzione e un albero e mi ritrovo sull'orlo della rupe, che comincio a costeggiare in discesa avvistando insolite piante grasse e farfalle coloratissime.

Qui il sentiero non c'è, ma il percorso è più che mai logico; la rupe di Rossenella si esaurisce in un boschetto rigoglioso, dove seguo tracce di bestie e sbuco di soppianto di fronte a un pollaio facendo venire un mezzo ictus al gallo (ma anche lui mi ha fatto prendere un discreto spavento, bastardo!). Attraverso il campo fra nervosi coccodè, sperando di non sentire un nervoso click di fucile, e ritrovo il sentiero segnato, che avevo intravisto prima dall'alto della rupe.

La rupe di Campotera
Sempre in discesa mi reimmetto nel sentiero percorso prima, che comunque lascio presto per un bivio a destra. Eccomi sotto la Rupe di Campotrera vera e propria, con gli spiazzi dalle vecchie cave, i filoni bianchi di minerali ben visibili sulla superficie ruvida e scura. Il sentiero costeggia a debita distanza tutta la base della rupe, con un paio di costruzioni pericolanti non a debita distanza...




Calanchi argillosi

Arrivo a un nuovo bivio: scendendo a sinistra raggiungerei brevemente un ponte dove ritroverei la carraia percorsa prima salendo da Cerezzola; decido invece di seguire un altro sentiero segnato, che riprende a salire attraverso i versanti spogli dei calanchi, sotto il sole potente di mezzogiorno. E' inutile che salga troppo, siccome il paese è qui alla mia sinistra; però voglio raggiungerlo seguendo un paio di eleganti creste argillose, con passo leggero e non proprio sul filo per limitare i danni.

Il Rio Cerezzola

Dopo la divertente discesa sono di nuovo al rio Cerezzola, dove non posso permettermi il lusso di un ponte e neanche di un sentiero per superare la vegetazione rigogliosa ai lati del torrente. Salgo attraverso un campo trovandomi sotto una casa del paese, dove ritrovo la stradina di stamattina e in breve sono all'auto, sporco sudato e con una fame boia: pranzo pasquale meritato questo giro!

martedì 22 aprile 2014

Parete nord Alpe di Succiso e monte Casarola: gran finale d'inverno in Appennino

C'era una volta una grande montagna, chiamata Spiaggia Bella. I pastori di Succiso il mare lo vedevano sporadicamente e solo dall'alto, lontano, irraggiungibile... forse nemmeno sapevano come potesse apparire una spiaggia nella connotazione del termine a noi oggi più famigliare; quindi chiamarono così la grande montagna sopra il loro paese: Spiaggia Bella, riferendosi con una punta di affetto ai vasti prati (piagge, spianate) dove poter lasciare le loro capre al pascolo.

Il maestoso vallone nord dell'Alpe di Succiso, sopra il Rifugio Rio Pascolo. Sullo sfondo le case di Succiso

Finalmente sull'Alpe con la neve!
Di là nella val Secchia, a Collagna Busana e dintorni, la montagna di Succiso invece veniva chiamata "alpe": termine dal significato simile a "spiaggia", riferito sempre ai pascoli. L'Alpe di Succiso così definita era in verità l'anti-cima sud-est, visibile appunto dalla media val Secchia davanti alla cima principale: la Spiaggia Bella dei succisini. A complicare ulteriormente le cose ci si mise il nome onnicomprensivo di Casarola, che indicava la montagna nel suo insieme.

Federico






Non ci avete capito una benedetta mazza, vero? Tranquilli, fu così anche per i geografi, che fecero un gran pasticcio: marchiarono definitivamente come Alpe di Succiso la cima principale (nome che si è poi ampliato a indicare l'intero gruppo montuoso), mentre il monte Casarola fu l'anti-cima sud che guarda la val Secchia. Nella sorte di un'altra cima minore ci ficcarono il naso addirittura da Ramiseto, forse innervositi dal nome Ventasso appioppato alla "loro" montagna... così oggi abbiamo anche il monte Ramiseto, all'inizio della cresta nord. All'inizio della nord-ovest ci sarebbe anche il Ramiceto ma è meglio fermarci qui.

Alberto


Ecco cosa significa Alpe di Succiso letteralmente. Però Alpe di Succiso significa qualcosa di più per me, Mario, Federico, Alberto: certo, abbiamo rispetto per le caprette che ogni tanto si trovano ancora da queste parti (se non si trovano di persona, ci sono i loro souvenir rotondi in serie), portate qui abitualmente da un pastore che sta giù al Passo dell'Ospedalaccio, fra gli ultimi rimasti sull'Appennino Settentrionale: un eroe, come negarlo? Ma "alpe" per noi significa montagna da ambire, dove mettersi alla prova, ammirare scenari severi e solitari, fare alpinismo in Appennino.




Mario
Dopo aver sondato in estate e autunno per conto nostro i vari versanti della montagna, quest'inverno io e Mario la abbiamo inserita fin da subito fra le mete stagionali obbligate. Un primo tentativo in febbraio, con davvero tanta neve, si è risolto in un rispettoso retrofront; dopo un mese il progetto si riaffaccia, ma ecco una grande valanga che si inghiotte due giovani scialpinisti di Berceto, e ci fa passare decisamente la voglia di rischiare. Poi arriva il caldo, l'inverno sembra finito, e l'Alpe siamo ormai intenzionati a rimandarla alla prossima stagione.

lunedì 21 aprile 2014

Lago Luna Alba Notte: anello con plenilunio dai Lagoni al monte Matto, per Badignana e Lago Scuro

Si narra che nelle notti di luna piena, sulle montagne più remote dell'Emilia, si aggirino lupi mannari: non i vampiri, quelli vanno di moda solo nei borghi della Toscana (come il lupo *manaio di nonno Fiorucci). Ai Lagoni lo scorso martedì sera non abbiamo visto nulla di tutto questo. Partiti da Parma nel tardo pomeriggio, lasciamo l'auto dove più ci aggrada: il parcheggio, tanto piccolo e congestionato d'estate, ora è tutto a nostra disposizione.


La superficie del lago si è scongelata, e nel solito angolo sotto la diga decine di cavedani si ammassano affamati come vampiri di Montepulciano. Ci cambiamo e riusciamo ad ammirare la luce ormai pallida del sole che accende le vette rocciose sopra la distesa d'ombra liquida del primo "lagone": divertente pensare che d'estate arrivano frotte di turisti a fotografare la polvere, mentre ora ci siamo soltanto noi a goderci questa meraviglia, costata 5 km di buche dossi voragini.


Il rifugio è chiuso ma non ci interessa: ci incamminiamo spediti verso il Badignana tagliando dal bosco per scendere sulla sterrata. Piccole chiazze di neve diventano più grandi mano a mano che saliamo; sotto i bellissimi faggi d'alto fusto il manto nevoso ha creato i caratteristici tondi primaverili, essendo meno spesso nelle zone vicine al tronco: sembra di camminare su un enorme gruviera biancognolo.


giovedì 17 aprile 2014

Ferrata Che Guevara, parete sud del monte Casale a picco sul Sarca

Dedicata a Che Guevara, ferrata ignorante fin dall'avvicinamento: parcheggi di fianco a una cava, ne costeggi le recinzioni, cominci a salire per i ripidi boschi sotto la parete sud del monte Casale, 1300 metri di roccia... Se alla sua base ci fosse Grindelwald al posto di ruderi fatiscenti, questa montagna avrebbe la fama che si merita! Ma forse è meglio così, non si sa mai che ci costruiscano uno scivolo giallo per scendere...


La ferrata vera e propria comincia subito bella pepata, con un diedro vista cave: ti prende la tentazione di arrampicare usando solo la roccia, ma è meglio afferrare il cavo senza farsi grossi problemi di performance, c'è ancora tanta strada davanti! La prima parte della ferrata alterna tratti di sentiero in traverso - poco esposti e in genere non attrezzati - a brevi passaggi su roccia, generalmente attrezzati.


Necessario sottolineare il generalmente: lo spirito anarchico di questa ferrata giustifica in parte la sporadica mancanza del cavo: certo, i tratti più delicati ed esposti sono attrezzati, ma capita di farsi qualche gradino di ferro o passaggio su roccia sfasciumata a mani libere, oppure con il cavo lasco per fittoni saltati via, magari legato con la canapa ad un alberello, o infine letteralmente portato via da una frana.

La cosa non preoccuperà di certo i tanti campioncini che affrontano le ferrate senza assicurarsi, o facendolo con metodi rudimentali, e ogni tanto si spiattellano a valle; ma dovrebbe fare scattare un campanellino di allarme a chi pensa di percorrerle in totale sicurezza con casco, imbrago e set: qui siamo in mezzo a una grande parete, le difficoltà tecniche sono ridotte (come sottolineano le relazioni), ma l'impegno globale dell'escursione si può considerare alpinistico.

Non siamo insomma su una ferrata sportiva, da fumarsi in poche come allenamento, e nemmeno su una ferrata adatta ai principianti: siamo sulla Che Guevara. Un pericolo da non sottovalutare è la caduta di sassi: 1000 metri di parete sopra il tuo cervello bastano a far guadagnare a un sassolino la velocità e la potenza distruttiva di un proiettile: se ne stava per accorgere Luca, che ne ha visto (o meglio intuito) uno passare molto vicino. Evita dunque di salire nei periodi di maggiore affollamento.

Anche l'estate e le giornate calde in genere sono sconsigliatissime per una ferrata simile: 4 ore abbondanti di salita esposti a sud, in pieno sole, con pochissimi alberelli a fare da riparo, farebbero evaporare la mente pure a un idrocefalo: portati dunque tanta acqua, non come Luca e Carlo che pensavano di liquidare quasi senza liquidi un percorso simile.

Ma torniamo ad appoggiare gli scarponi (non le scarpette da arrampicata, eh?) sulla Che Guevara: dopo un tratto abbastanza lungo di sentiero, si attraversa un boschetto, seguito da alcune facili roccette. Ormai davanti c'è solo un muro di roccia, e qui (quota 650) inizia la seconda parte della ferrata, la più interessante e continuativa. Il fatto che le foto postate siano quasi tutte verticali dovrebbe far riflettere!

Si parte con un divertente zig zag di traversi in aderenza su placche appoggiate, grandi superfici di roccia calcarea che lasciano ben sperare per il seguito; peccato che presto ricomincino i passaggi su roccia meno solida, dove occorre prestare molta attenzione nello scegliere gli appigli giusti senza non far cadere sassi su chi ti segue.


giovedì 10 aprile 2014

In viaggio sulle pietre Apuane: Rifugio del Freo, Pania della Croce, Monte Forato, Pruno

Domenica, ore 7: dopo una notte al quasi-freddo (pipistrello bastardo!, antecedente qui) scendiamo a fare colazione: fuori dalla finestra è tutto grigio, la Pania della Croce ancora incappucciata... il miglioramento previsto dai meteo sembra tardare a venire! Ci prepariamo dunque con calma, tanto fra vento caldo e nuvole la neve in alto sarà comunque pappa a prescindere dall'orario in cui la raggiungeremo.

La Pania della Croce/Pietrapana vista dal Rifugio del Freo

Ci incamminiamo così alle 8 passate, raggiungiamo Foce di Mosceta e cominciamo a salire con il 126 lo spoglio versante ovest della Pania. Mano a mano che guadagniamo quota, compaiono una ad una le cime delle Apuane, confuse nella foschia; la salita non è faticosa: forse perché siamo freschi, forse per l'ambiente selvaggio che stiamo attraversando, con possenti torrioni di roccia grigia e geometrica.

Prima parte della "costa della Pania", il versante ovesr

A quota 1700 circa comincia la neve, che come da copione si rivela molle e bagnata... Procediamo comunque con piccozza e ramponi, giusto per non tenerli nello zaino, anche se il problema maggiore all'inizio sono i buchi che vengono a crearsi sotto la neve fra le rocce. Il pendio si fa poi più ripido avvicinandosi al piccolo valico sul crinale, il cosiddetto Callare della Pania.

Neve e mare

mercoledì 9 aprile 2014

In viaggio sulle pietre Apuane, primo pomeriggio: Pruno - Rifugio del Freo

Succede che la materia eterea dei sogni diventi un giorno solida come il marmo. Le Alpi Apuane, dove la natura e l'uomo hanno dato forma ai loro capricci, erano sempre lì, a coprire l'orizzonte, mentre le guardavo dal ben noto Appennino aspettando l'occasione giusta per toccarle con mano e con piede. Finalmente l'occasione si è presentata, e queste montagne aspre e sublimi hanno premiato degnamente tanta attesa.

Monte Forato e Panie

Sapevamo bene di non poterci permettere di sottovalutarle, le Apuane: quindi ci siamo presentati con tutta l'attrezzatura del caso: piccozza, ramponi, casco, imbrago e set da ferrata. Ma nonostante la reverenza e tutto questo peso nello zaino, abbiamo deciso di percorrere un itinerario lunghissimo, che ha sorpreso i vari toscani incontrati lungo il percorso: anche quelli saliti sulla loro montagna preferita, tutti senza ramponi.

Verso la cresta N della Pania, sullo sfondo il Pizzo delle Saette

La Pania della Croce: il nostro battesimo apuano doveva cominciare da lei. Citata persino dal fiorentino più famoso di tutti i tempi nella Divina Commedia; da Gabriele D'Annunzio che la guardava dai lidi della Versilia; e sul versante opposto, in Garfagnana, da Giovanni Pascoli. Sulle ripide coste della Pania si avventurarono partigiani coraggiosi, ricordati da diverse targhe: naturalmente in marmo, fama e condanna di queste montagne meravigliose.

Scendendo dalla Costa Pulita della Pania verso Foce di Valli

giovedì 3 aprile 2014

Monte Cunicolo, Vignole e piramidi di Zone: anello a picco sul Lago d'Iseo

L'altopiano di Zone ci si presenta ridente e verdeggiante, sparso di casette e campanili, preceduto dalle formidabili piramidi modellate dal tempo dal caso e dall'erosione, con il loro masso sospeso coraggiosamente sopra. A destra dell'altopiano profonde valli solcano i fianchi del monte Guglielmo, i pratoni sommitali ancora pieni di neve; a sinistra montagne più modeste e brulle - le nostre mete - precipitano sul lago d'Iseo.

Monte Guglielmo dalla cima del monte Vignole.
In primo piano, 6 anni di onorato servizio

La zona ha l'aria di essere molto frequentata in primavera, vista la vicinanza a Brescia e il clima gradevole; ma basta poco per trovare sentieri selvaggi, da percorrersi con la dovuta attenzione, per ricevere in premio panorami vastissimi e scenari dal sapore dolomitico.

I contrafforti del Cunicolo, sullo sfondo la Presolana

A Zone scopriamo con sorpresa di essere arrivati in concomitanza con una manifestazione degli Alpini: poco ci manca che parcheggiamo di fronte al monumento ai caduti, dove la parata si sta dirigendo seguita da un bel codazzo di paesani! Quasi tutti gli esercizi commerciali del comune sono chiusi, salvo il Bar Centrale, dove i cordiali proprietari ci riforniscono di caffè, panini e preziosi consigli sull'itinerario; poco dopo dovranno fornire ben altre quantità di bianco alla processione assetata degli alpini, la cui inevitabile meta finale, oggi, non può essere diversa da questo bar.

Primavera sull'altopiano di Zone

martedì 1 aprile 2014

Monte Caio, ciaspolata di notte su neve fresca immacolata

Le notturne stanno diventando una brutta abitudine... parlo delle ciaspolate, si intende. E' lunedì 24 marzo, e anche stavolta ci organizziamo all'ultimo, approfittando della nevicata scesa al mattino sul nostro Appennino fino a quote abbastanza basse. Faccio un po' la pecora nera in mezzo a quattro rampolli del corso base di alpinismo del Cai: i già ben rodati Mario e Luca, le new entry Laura e Carlo. Trovo subito il modo di sorprenderli con escursioni che col Cai non faranno mai!

Freschi come se fosse mattina e carichi come il baule della mia macchina, risaliamo le curve per Schia con le piadine del Cinecity a penzolare nello stomaco, in compagnia di tantissime lepri; parcheggiamo all'inizio della strada per il monte Caio, che si stacca sulla destra prima che inizi la discesa per lo chalet Pian della Giara (da dove ero partito l'ultima volta risalendo le piste). Inspiegabilmente la strada è battuta, non solo sui primi 300 metri asfaltati, ma anche sui successivi sterrati: il che comporta fango e scomodità nel portarsi le ciaspole sullo zaino, o in mano per chi lo ha lasciato in auto (come me).

Per fortuna il volenteroso spazzaneve si è fermato poco prima del bivio per il Grande Faggio, e finalmente possiamo calzare le ciaspole. Luca e Laura hanno deciso - anche su mio consiglio - di non noleggiarle: all'inizio in effetti lo strato di neve fresca non supera i 10 cm, ma proseguendo aumenta sempre di più. Raggiunta la pista di raccordo San Matteo, lo spettacolo degli abeti quasi carichi di neve dà un'illusione di pieno inverno ormai alla fine di questa stagione sfortunatissima per i gestori della stazione sciistica.