giovedì 29 maggio 2014

Corde e chiodi su Rocca Pumaccioletto: spigolo sud est e Falesia Asfodeli

Qualcosa è cambiato! Andando in auto verso i Lagoni non sembra più di sperimentare una strada inter-poderale dell'Afghanistan (più che fra poderi, fra poteri mi sento di aggiungere); l'ultimo atto dell'amministrazione uscente - ormai uscita - di Corniglio è stato illuminato: in vista dell'estate, tappare le voragini e spianare nei limiti del possibile i salti di pietra che fino alla settimana scorsa devastavano questa sterrata e quella diretta a Lagdei. So che fra tre mesi saremo daccapo, ma intanto giù il cappello.

Panorami verso le montagne reggiane dallo spigolo di Rocca Pumaccioletto

Nella bella ma fredda giornata di sabato, pochi escursionisti vari pescatori e molti climbers hanno omaggiato i Lagoni con la loro presenza: amici e conoscenti diretti alla falesia del lago Scuro, ragazzi e ragazze a un'esercitazione con tanto di Soccorso Alpino assiepati attorno al Sasso sul Sentiero; noi ci incamminiamo subito verso Rocca Pumacioletto, anche per scaldarci un po' visto il vento e le temperature "primaverili".

Mario in cima

Il sentiero 711 sale nel bosco, attraversa un paio di nevai marci e in meno di un'ora ci porta alla base della parete del Pumacioletto; a prima vista un cumulo di blocchi che non sembrano troppo affidabili, vista anche la pietraia colossale alla base... qualcosa di buono però c'è, e nella porzione sud ovest sono state tracciate diverse vie molto vicine fra loro, e spittate più che a sufficienza.

La parete sud ovest

Decidiamo di fare due cordate: io e Mario saliamo dallo Spigolo sud-est, la via più facile e "panoramica", con due passi obbligati di 4b per 70 metri di lunghezza e tre tiri - con la corda di Mario ce ne stava anche uno solo! - mentre Alberto e il suo amico, quello del blog, tentano Dies Irae, decisamente più lunga e difficile (6a obbligato e 6b), cinque tiri per 125 metri.

Il geologo dal temuto martello-spiaccica-spit in una foto d'epoca

Questa volta proviamo a salire facendoci sicura con il mezzo barcaiolo, in modo da procedere alternati senza dover tutte le volte ri-attrezzare la sosta... i tiri non sono stancanti, possiamo permettercelo. Mario fa da primo quelli più divertenti, il primo e il terzo: gli spit sono tantissimi - come lamentano i due alpinisti duri e puri che ci accompagnano - la ruvida arenaria-macigno offre ottima aderenza e prese molto invitanti... occorre però fare sempre attenzione a cosa si prende fra le mani, la natura a blocchi di questa roccia può ingannare!

Mario attacca il primo tiro

L'uscita del terzo tiro è il pezzo più gratificante della via, proprio sullo spigolo, con arrivo improvviso sotto la croce. Abbiamo fatto tutto in meno di un'ora, e poco meno di un'ora ci vorrà per aspettare Federico e Alberto, che hanno avuto difficoltà su Dies Irae a causa dell'umidità e del freddo, che non vanno troppo d'accordo col sesto grado... così dopo il primo tiro l'hanno abbandonata per proseguire su Sasso Volante e arrivare in vetta con gli ultimi tiri di Save 2000 (info sulle vie qui: Guida Monti d'Italia, pag 233 e segg).

Federico sull'ultimo tiro di Sasso Volante

Uscita in vetta (ultimo tiro Save 2000)
Le prese sono sempre quelle!
Immortaliamo l'uscita dei due alpinisti oggi alle prese con qualche chiodo di troppo, dopodiché ci attrezziamo velocemente per la calata in corda doppia: la prima in assoluto per il sottoscritto! Vedere le due mezze corde lanciate dal burrone mi ha fatto un certo effetto... scendiamo con un'unica calata di 60 metri fino alla base dello spigolo percorso da me e Mario: un po' diversa dalle calate dei monotiri! I miei 55 kg da un lato mi danno fiducia nelle due mezze corde non proprio spessissime, dall'altro mi costringono a mollarmi totalmente per guadagnare velocità nei tratti inclinati... comunque una bella botta di adrenalina!

Federico sulla via Spada di Damocle
Sono ormai le 13 passate quando tutti siamo alla base della parete: Alberto deve andare e anche Federico non ha molto tempo, dobbiamo rinunciare a fare un'altra via lunga... peccato, ma d'altronde vento e fresco non mettono tanta voglia di salire di nuovo. Dopo il meritato panino ci concediamo comunque un giro veloce alla Falesia degli Asfodeli, non certo famosa per la facilità delle vie.
La croce di Rocca Pumaccioletto

Si tratta di un bel settore compatto, a tratti strapiombante, a ovest rispetto a Rocca Pumaccioletto: va dunque al sole di pomeriggio. Le vie sono quasi tutte sopra il sesto grado, a parte tre: di queste scegliamo La Spada di Damocle, un 5b tutt'altro che generoso, che richiede molto equilibrio e fiducia nell'aderenza... gli spit non vicinissimi richiedono poi quel pizzico di coraggio in più; comunque anche io e Mario con un po' di pause-sghiso riusciamo a chiuderla da primi.  Giornata ottima e conclusa prima del solito, alle 15 al rifugio Lagoni: una bella birra e fetta di torta sui tavoli al sole dove si sta davvero da sceicchi afghani, poi giù verso Parma dove le temperature sono già estive.

lunedì 26 maggio 2014

Sporno, Montagnana, Cavalcalupo: il crinale sacrificato a fuoristrada e metanodotti

Non molto tempo fa sulla pagina Facebook di montagnatore sono entrato in polemica con alcuni enduristi, non essendomi fatto problemi a dichiarare che rovinano i sentieri di montagna. All'inizio pensavo di non inserire nel blog i racconti delle mie uscite estemporanee nella media montagna, ma ora intendo farlo, anche per mostrare a tutti i segni di una devastazione irrispettosa e prepotente.


Chi scrive all'età di 14 anni non possedeva il motorino, ma il "cinquantino" da trial a miscela; poi è passato all'enduro con un 125 cc, e ha esplorato molti dei sentieri in val Parma e dintorni; in seguito si è stancato di fare fuoristrada e fino a un paio di anni fa amava compiere giri di centinaia di km in giornata con la moto da strada; alla fine ha capito che camminare costa decisamente meno ed è molto più gratificante. Al di là di quello che è stato il mio percorso, intendo chiarire che quando parlo di fuoristrada so a cosa mi riferisco.

Non voglio vedere!

Un pomeriggio della scorsa settimana, non avendo l'auto a disposizione, ho deciso di andare in montagna con la motina da trial di mio padre, un 250 cc che non ama troppo l'asfalto, per cui mi sono dovuto dedicare alle montagne più vicine a casa: subito dopo Marzolara, sopra Felino, ho imboccato alcune carraie che con qualche deviazione ingannevole mi hanno portato in cima al monte Sporno (1058), proprio quello al centro della disputa su Facebook.

Cippo in cima allo Sporno

Sono dunque sceso a Fragnolo, sopra Calestano, e per carraie più grandi e facili ho raggiunto Montagnana (1305), dove ho parcheggiato per proseguire a piedi. In Appennino non piove da giorni, i sentieri sono in buona parte asciutti, ma non mancano i soliti pozzangheroni e le tracce piene di fango, difficili da evitare; negli ultimi tratti in salita prima dello Sporno inoltre una grande quantità di pietre smosse ha reso più difficile la mia progressione.

Scorci sulla pianura

Prinzera e cumuli
Moto da trial come il Beta Alp sono "muletti", leggerissime e note per andare piano piano dappertutto, anche sui sentieri più erti; mentre le moto da enduro sono fatte per andare forte. Diffidate degli enduristi che dichiarano di andare piano: se andassero piano non supererebbero tratti ripidi e sassosi, e rimarrebbero piantati dentro i solchi infangati; se andassero piano non avrebbero 450 di cilindrata sotto il sedere.

Molti enduristi inoltre non si limitano al sentiero, ma tagliano per i campi vicino in modo da andare più forte ancora: lo testimoniano numerose tracce, transenne e filo spinato lasciati dai contadini per chiudere i passaggi. Sarebbe inoltre rispettoso andare via quando c'è asciutto (come in genere fanno i contadini col trattore, interessati a non distruggere i sentieri che devono percorrere per campare), ma i solchi onnipresenti sulle sterrate anche in zone non naturalmente umide dimostrano che molti motociclisti non lo fanno.

Segni di ruote nel prato (il sentiero è in basso a destra)

Ma le moto da enduro sono nulla in confronto a quad e soprattutto jeep: un fuoristrada a quattro ruote fa un danno doppio rispetto alla moto, e andare via col bagnato è un must per molti appassionati, autentici feticisti del fango: scene di jeep bloccate nel pantano e tratte fuori a forza di sgasate con il verricello legato a una pianta non sono rare dalle nostre parti.

La chiesetta di Montagnana

Infine i raduni di jeep e quad e le moto-cavalcate hanno sui sentieri un effetto simile a quello di una frana: il passaggio di centinaia di mezzi tutti in una volta modifica profondamente l'assetto del terreno, creando enormi mucchi di terra e solchi in cui poi la pioggia si incanala facendo il resto del lavoro. I sentieri ne escono distrutti e l'acqua, passando dove non dovrebbe, rischia di alimentare frane e smottamenti a tutto danno dei paesini a valle, i quali magari pensano di avere un tornaconto economico da queste manifestazioni!

Ultima neve sull'Alpe di Succiso

Naturale che con ciò non voglio generalizzare: ci saranno sicuramente motociclisti rispettosi, raduni organizzati con cognizione di causa e immediata sistemazione dei danni... purtroppo non sempre è così. Personalmente non vieterei in modo assoluto il transito dei fuoristrada sui sentieri per motivi di svago, se non in aree con emergenze ambientali certificate, nelle quali potrebbero andare più escursionisti di quanti ce ne vadano ora sapendo di trovare tutto infangato e rovinato.

Panorami da media montagna (a destra il monte Cervellino)

Il crinale che separa la val Parma dalla val Baganza, e ha nel monte Cervellino (1492) la sua massima elevazione, avrebbe potuto costituire una di quelle aree, avvalorata dalla vicinanza alla città; al di là dello Sporno, di fatto una palestra per moto ormai irrecuperabile, le praterie sopra Montagnana, Cavalcalupo e monte Polo sono luoghi bellissimi, con fioriture rigogliose, vasti panorami, scorci da alta quota... peccato abbiano deciso di farci passare il metanodotto, proprio sulla linea del crinale!


Il sentiero Cai 741, da Montagnana in poi di fatto lo segue, concedendo ogni tanto qualche tratto all'ombra sulle vecchie carraie in parte ancora esistenti. Le tracce di moto e jeep sono ovunque: sulle carraie, lungo il metanodotto, nei campi adiacenti e potenzialmente ancora integri. Quella che potrebbe diventare d'inverno una pista da sci di fondo (forse c'è qualche saliscendi di troppo, ma quota ed esposizione sono favorevoli) è diventata una pista per fuoristrada, con tanto di salti!


Pippano pure qui?
Sole radente
Per fortuna all'andata ho trovato un sentiero intatto, segnato con cartelli del Tartufo Trial (una gara di corsa immagino), che scende leggermente sul versante della val Baganza nel fresco delle faggete. Sbucato in una piccola radura con i pini, sono risalito seguendo vecchie tracce nel bosco, solcato da profondi ruscelli, ritrovando il metanodotto del crinale presso il Monte Scarabello (1341)

Le Alpi Apuane da Montagnana
Qui, vista l'ora ormai tarda per salire sul Cervellino, ho girato i tacchi seguendo il metanodotto fino alla moto, godendo alle spalle di splendidi panorami garantiti dalla giornata tersa: Cimone, Cusna, Alpe di Succiso, persino un paio di Alpi Apuane oltre il passo del Lagastrello: la Tambura ancora innevata e il Pisanino. Sicuramente se avessi percorso il metanodotto con la moto avrei fatto fatica a riconoscerle!


giovedì 22 maggio 2014

Via alpinistica Roberto Fava alla cresta dello Sterpara, con tramonto sul Lago Santo

Sbarchiamo a Lagdei attorno alle 15, in una soleggiata domenica pomeriggio: per fortuna troviamo un parcheggio libero per il mio furgoncino. I faggi sono verdi, gli abeti sempreverdi, il prato davanti al rifugio verdeggia anche lui pieno di gente crogiolata al sole: sembra di essere in Piazzale della Pace a Parma, mancano solo gli spacciatori!

Rifugio degli Uffici della Provincia di Parma

Mario sistema la sua bambinona
Attraversiamo il campetto seguiti da sguardi curiosi, della serie: "Ma cosa ci fanno in montagna questi due con la corda e i caschi appesi allo zaino?"; ma forse ho sottovalutato gli avventori di Lagdei, forse sono più svegli dell'apparenza e in realtà si stanno chiedendo: "Cosa ci fanno questi due con una corda da 70 metri a Lagdei? Falesie che non ci sono, o forse vogliono legarci qualcuno che gli sta antipatico?". Col tempo ci procureremo una o due mezze corde!




Lago Santo con cresta dello Sterpara (manca l'ultimo sperone a sinistra)
Mario sembra comunque non patire troppo il peso dello zaino in salita, e brevemente raggiungiamo il Lago Santo: il colpo d'occhio è mozzafiato, come al solito, ma oggi c'è qualcosa di nuovo: un raro esemplare di rugbista - alpinista - mountain runner seduto sul tavolino fuori dal rifugio: è Topper, che già conoscevamo virtualmente per le sue volate qui in Appennino e dintorni; ma le sue origini rimangono avvolte nel mistero.

La prima sosta
Salito al mattino da una via a Rocca Pumacioletto (sopra i Lagoni) è venuto qui al Lago Santo percorrendo il crinale: così, giusto per fare una passeggiata. Ci fermeremmo volentieri per una birra in compagnia, ma sono le 15,30 passate, un orario in cui gli alpinisti di norma si godono la birra alla fine del giro; noi invece dobbiamo ancora cominciare!


Riprendiamo a camminare, costeggiamo il lago per poi salire alla Pineta: già qui vediamo le indicazioni per la nostra meta, la Via alpinistica Roberto Fava. Passiamo sul 719, lo seguiamo per pochi minuti sino a svoltare a sinistra, salendo nel bosco fino a uscire in un canalotto con ancora neve: lo risaliamo aiutati da ometti di pietra, godendo dello scorcio commovente sul Lago Santo alle nostre spalle.


Vista insolita del Marmagna
Ormai in fondo alla salita, si raggiunge il crinale boscoso che unisce l'Aquilotto allo Sterpara: voltiamo dunque a sinistra, seguendone il filo fino a trovarci sotto il primo sperone roccioso: qui inizia la via alpinistica Roberto Fava. Dopo la salita accalorata, ci accoglie qui un vento gelido, che accompagna nuvolozzi formatisi sul versante marittimo: innocui, ma comunque capaci di coprire il sole e costringerci ad arrampicare ben imbacuccati.




Il primo tratto della via
Attacchiamo la cresta alle 16,30. Mario va sempre da primo, è lui il corsista di alpinismo: io non sono ancora capace di usare la piastrina GiGi per fare sicura, e non vorrei combinare danni! Fin da subito capiamo che la corda così lunga è soltanto un peso: i tiri sono corti, le soste ravvicinatissime (infatti qualcuna la saltiamo fin da subito). Numerosi spit rendono psicologicamente più sicura la progressione, il primo spuntone è abbastanza esposto ma decisamente facile e ben appigliato; peccato solo per qualche roccia un po' ballerina.


Superato un grande masso sporgente, siamo sulla vetta erbosa dello Sterpara (1685): volendo avremmo potuto arrivarci con un unico tiro dall'inizio della via! Le nuvole giocano ad avvolgere le cime attorno a noi: a destra l'elegante cresta di Roccabiasca domina la valle del Pradaccio, riserva naturale integrata, col suo lago ormai avvolto in un sonno d'ombra; mentre sul Lago Santo il sole batterà ancora a lungo. La cresta Sterpara è l'ultima verso ovest delle dorsali minori che si staccano dal crinale tosco-emiliano separando le valli parmensi: tutte interessanti a livello alpinistico, d'estate e inverno.

Roccabiasca vista dallo Sterpara

Ravaniamo per bene nel bosco con ancora neve prima di raggiungere il secondo tiro, uno spigolone bello compatto, che ci induce a metterci le scarpette per procedere meglio. La parte di arrampicata divertente però finisce subito, e ci ritroviamo in una selva di pietre dove Mario fatica a trovare una sosta, ma con un po' d'impegno la trova: siamo nel punto più vicino al lago Santo, che da questa prospettiva nuova sembra ancora più grande.



Il terzo sperone è vicino, ma occorre attraversare un boschetto e rimettersi gli scarponi. Eccoci nel passaggio centrale della via, e probabilmente il più difficile (comunque evitabile passando a destra): una placca di 6 - 7 metri abbastanza liscia, ma comunque a ben vedere prodiga di appigli e soprattutto spit! Siamo sul IV grado "abbondante", ma con le scarpette passiamo senza problemi. Mario fa sosta su un albero, ci rimettiamo per la terza volta gli scarponi sperando di tenerceli una volta per tutte.

Sotto il terzo sperone

Quarto sperone: salita...
...quarto sperone: discesa!
Purtroppo le speranze si rivelano vane: dopo l'ennesimo bosco di collegamento, ci troviamo quasi all'improvviso sotto il quarto sperone, un nuovo spigolo molto estetico all'apparenza non tanto più facile rispetto al passaggio precedente... ci tocca rimetterci le scarpette!

Ormai sono le 19,30, la luce si è fatta radente, le nuvole se ne sono ormai andate, l'atmosfera magica fa godere dell'ora tarda. Potremmo tagliare a destra per scendere direttamente al lago Santo, ma ci manca solo l'ultimo sperone e vogliamo arrivarci in fondo (con gli scarponi, ci trovassimo anche di fronte a un V grado!!!).

Verso l'ultimo salto di roccia

Il bosco è più lungo, procediamo in stile "conserva da falesia", con Brunelli al guinzaglio che va dove gli dice il navigatore. Superiamo un nasino roccioso dove legarsi è inutile e siamo finalmente sotto l'ultimo salto roccioso, più simile al primo come lunghezza. La sosta non c'è, ci leghiamo a due alberi e decidiamo di liquidare tutto con un unico tiro: basterà poco più di metà corda.

La penultima sosta
E' questo il tratto forse più facile fra i 5 della via, ma l'uscita ha il suo fascino: l'ennesimo breve spigolo geometrico di arenaria macigno, vista aerea su due laghi e una successione emozionante di montagne baciate dall'ultimo sole che sta calando lentamente proprio dietro la cima dell'Orsaro. Sono ormai le 20 quando mettiamo nello zaino imbrago, ferri e cordami, apprestandoci alla discesa che non sarà banale.

Quinto e ultimo sperone della via

Fine della cresta!

Rimasti vicino al crinale ormai boscoso (stando sul versante Pradaccio) raggiungiamo una piccola selletta, dove la discesa sul versante Lagdei è ripida ma fattibile, magari aiutandosi con i faggi, mal che vada stampandoseli in volto. Per par condicio porto io la corda di Mario, potendo apprezzare sui ginocchi tutto il suo peso! Sbuchiamo nel sentiero 723 b delle Carbonaie, diretto ai Cancelli; per scendere a Lagdei occorre percorrerlo brevemente a sinistra fino a incrociare il 723a che in una ventina di minuti ci riporta all'auto, una delle ultime rimaste. Rifugio chiuso, Piazzale della Pace sgombro, planiamo verso la vera Parma con una fame non da quarto grado, da quarto mondo!

La relazione che avevamo in tasca by Red Climber!

martedì 20 maggio 2014

Groppo di Gora e Castellaccio, la fioritura delle ofioliti. Anello da Cogno di Gazzo

La terza settimana di maggio, meravigliosa, ha portato la primavera anche sui monti: la primavera che ha riempito di fiori i prati, acceso i boschi di mille tonalità di verde, scolpito all'orizzonte i profili delle cime più lontane bianche di neve, e ancora più su ha fatto comparire nel cielo ampio e terso quasi scozzese improbabili cirri e piccoli cumuli, pennellate di vento che sa inventarsi solo lei, la primavera.
Difficile stare in città con pomeriggi del genere. Risalgo la val Ceno fino a Bardi, volto a destra verso Bore e parcheggio all'ultima frazione prima del Passo Pellizzone: Cogno di Gazzo. Dal ridente paesino semi-deserto comincio a salire lungo una carraia che punta all'evidente rupe ofiolitica del Groppo di Gora.

Qui è presente una cava di pietre verdi, usate per costruzioni e fondi stradali. Gli affioramenti ofiolitici sono diffusi in un'ampia fascia di Appennino emiliano, specialmente nelle valli di Taro e Ceno; sono stati sfruttati sin dall'età del ferro per l'estrazione di pietre resistenti, ma negli ultimi decenni le cave sono state in gran parte abbandonate per la bassa redditività.

Bisogna inoltre ricordare che nelle ofioliti sono presenti fibre di amianto, in quantità comunque non preoccupante per la salute di chi le lavora: almeno stando all'interessante (ma ormai datato) rapporto dell'ARPA Emilia Romagna del 2004, nel quale sono censite le varie cave con analisi dei campioni di rocce e dei dati sulla mortalità per tumore nei paesi interessati dall'estrazione, risultati nella media nazionale.

Il rapporto lasciava comunque vari punti interrogativi, legati soprattutto alle statistiche (gli abitanti di questi paesi sono pochi) e al fatto che il tumore causato dalle fibre di amianto - cioè il mesolitoma - ha un'incidenza di 30 - 40 anni. Sono dunque sorti comitati per tutelare la salute dei valligiani, e le cave di Bardi sono finite sui giornali quando nel 2012 il sindaco ne ha autorizzato la riapertura e il rinnovo di concessione.

Per un po' sui giornali di certo non ci torneranno, ma in compenso sono finite su montagnatore! Torniamo dunque all'inizio della passeggiata, a quel paesino dal nome gradevole: Cogno di Gazzo (900 m). Seguo la strada che lo attraversa, asfaltata fino alle ultime case poi sterrata, e dopo circa 1 km incrocio il metanodotto sopra il quale passa niente meno che la Via Francigena.

Devo a questo punto ritrattare le mie convinzioni storico/viabilistiche: gli antichi romani avranno anche inventato gli acquedotti, ma i metanodotti sono un retaggio del Medioevo. E come se non bastasse i lungimiranti abati hanno pensato persino di utilizzarli come vie di comunicazione, vista la mancanza di alberi sopra il loro tracciato: probabilmente ci passavano con le jeep.

Facendo questi pensieri, temevo di incontrare lungo il metanodotto l'indiano di Cadignano, invece ho incontrato un cinghiale, e bello grosso! per fortuna spostatosi senza tanti preamboli e ringhiate. Abbandono volentieri il pellegrinaggio sul metanodotto appena raggiungo il crinale fra val Ceno e val d'Arda, riconoscibile per la presenza di una centralina con i cartelli, e imbocco a sinistra il sentiero Cai 907 che penetra nella faggeta.

Purtroppo la traccia è rovinata dal passaggio di moto (troppo poco lo spazio per jeep o trattori), con solchi profondi pieni di fango che inducono a passare nel bosco. Il sentiero di crinale non è che la giuntura fra tante altre sterrate, tutte ridotte nelle stesse condizioni; se non ci fossero i segnali sarebbe facile sbagliare strada qui, anche perché il crinale è poco pronunciato e tutto coperto dal bosco.

Finalmente dopo questo lungo tratto noioso i faggi si aprono un poco a mostrare di nuovo l'imponente Groppo di Gora (1301), ormai vicino. Tenuta la sinistra a un bivio (indicazione per monte Lama), con uno strappo di salita sono sui bei prati sommitali, pieni di fiori e solcati da caratteristici canalotti; impressionante il contrasto con l'orrido marrone che sprofonda sulle cave: proprio sull'orlo è stata posta una madonnina dentro una specie di mini-bivacco.

Mi concedo un po' di relax sul praticello morbido al sole, sembra che le gambe debbano ancora recuperare lo sforzo delle Apuane di 6 giorni fa... riparto comunque in fretta, costeggiando il bordo del precipizio dove il prato si interrompe, mangiato letteralmente dall'erosione. Posso ora apprezzare il versante ovest del Groppo, non alterato dalle cave: una massiccia parete scura, alta quasi almeno 80 metri e dall'apparenza solida... chissà, si potrà tracciare qualche via alpinistica? O dopo, più che per inalazione di fibre di amianto, il rischio sarebbe di lasciarci le penne per qualche roccia traditrice?

Così ragionando, supero un piccolo valico nel bosco e riprendo a salire verso il Castellaccio; nuovi prati panoramici con fioriture variopinte deliziano il mio sguardo, purtroppo sempre a pochi passi dagli onnipresenti solchi fangosi delle moto, dove quei fiori sicuramente non cresceranno più per anni. Come se non bastasse, pezzi di palstica bianca e rossa sono appesi agli alberi, a indicare il tracciato di qualche giro o competizione.

Appena il bosco si interrompe compare all'improvviso un elegante pinnacolo ofiolitico, che non avevo notato prima: si tratta della vetta del Castellaccio (1308), che raggiungo con facile arrampicata. Ecco che la vista si apre su un nuovo versante, e sotto il mio naso si stende un'ampia torbiera pianeggiante, uno dei tanti "Prato Grande" o "prato Mollo" diffusissimi in questa zona di Appennino.

Al centro piccole polle d'acqua, e sparsi ovunque sassi scuri o rossastri che contrastano col terreno argilloso intorno, creando un'atmosfera da frana ciclopica; non mancano naturalmente le solite fioriture rare legate al microclima caldo presente attorno alle ofioliti. E non mancano neppure le solite tracce di jeep e moto, squarci profondi in questa piccola oasi d'alta quota; solchi che non si limitano alla sterrata che attraversa la torbiera (di fatto siamo su un valico), bensì creano piste secondarie totalmente superflue. Si vede che siamo vicini alla "valle dei motori", dove i motori sono il motore dell'economia; qui però ci sono valori naturalistici diversi da quelli delle colline sopra Varano Melegari.

La zona del Groppo di Gora - Monte Lama - Monte Menegosa è un Sito di interesse comunitario (SIC), e i motivi ci sono tutti: rarità botaniche, geologiche, ricchezza faunistica, ambiente dal sapore di alta quota con panorami ampi verso la pianura e l'Appennino. Trovo totalmente irrispettoso e dannoso permettere a mezzi motorizzati di attraversare queste zone per divertimento; e non ci vedo neanche un gran tornaconto economico, vista la pressoché totale assenza di attività ricettive nei dintorni.

Valorizzare queste montagne a livello escursionistico invece potrebbe fare sopravvivere nei weekend un rifugio e qualche locanda/ristorante in più; la vicinanza con la pianura potrebbe essere il fattore vincente. Ma con la via Francigena che passa da un metanodotto; con i sentieri maciullati di fango; con l'incognita per il camminatore di doversi spostare per far passare la comitiva di moto da enduro/jeep e mangiare il loro fumo, non ci saranno grossi passi avanti.

Dall'ampia torbiera sotto il Castellaccio mi riporto ai piedi del Groppo di Gora seguendo un'ampia sterrata in direzione est. Nella piccola cava c'è una ruspa abbastanza nuova e la casetta del cantiere, nuova anche lei ma vittima di piccoli vandalismi. Proseguo sulla strada di servizio della cava che scende verso Cogno di Gazzo, inizialmente abbastanza ripida e con sassolini piuttosto antipatici; attraverso anche una pineta con un laghetto e in breve sono all'auto. Mi accorgo solo quando sbatto gli scarponi di avere pestato perfettamente un'escremento, non di Jeep né di moto. Per il resto pomeriggio davvero goduto!

Punto di partenza: Cogno di Gazzo (900)
Punto più elevato: Castellaccio (1308)
Dislivello in salita: 450
Tempo totale di percorrenza: 3 ore
Grado di difficoltà: E
Segnaletica: Discreta sui sentieri Cai, assente negli altri
Punti d'appoggio: Nessuno. Acqua 10 minuti sotto la cava del Groppo di Gora
Accesso stradale: Vedi mappa