giovedì 24 dicembre 2015

Spigolo Faccio al Primo Apostolo, cavalcando la nebbia sulle Piccole Dolomiti

Raffreddore, tosse, spossatezza fisica: gli esperti consigliano antibiotici, riposo al chiuso al calduccio... ma fuori dalla finestra c'è la nebbia, questa fetta di cicciolata larga centinaia e centinaia di km quadrati che raccoglie tutto lo schifo prodotto da camini, automobili, sigarette della nostra industriosa pianura.

Quarto tiro, Spilolo Faccio

E tu sai che la superficie terrestre non è tutta piatta: come l'elettrocardiogramma di un ricoverato in coma, a un certo punto la linea retta comincia ad ondeggiare leggermente, poi sempre di più; città e autostrade lasciano il posto ai vigneti, i vigneti ai boschi, i boschi ai pascoli, e i pascoli a piramidi affilate di roccia che squarciano la cicciolata di nebbia come spade. Il malato di coma, con respiri profondi, è tornato alla vita!

 
Per fortuna non mi mancano amici con la voglia di arrampicare al sole; altri amici spediscono foto in canottiera a più di duemila metri, la smania aumenta di frequenza... e dopo un sabato di riposo, alla vigilia di domenica mi sento abbastanza ripreso per mettermi in gioco. Optiamo per una via breve, relativamente facile, con accesso e rientro comodi: lo Spigolo Faccio al Primo Apostolo, nel gruppo di Sengio Alto, Prealpi Vicentine.

 
Terzo tiro

Fino all'ultimo, saliamo con il dubbio di lasciare la testa sotto le nuvole. Sappiamo per certo che sulle Dolomiti grandi splende il sole; ma sulle Piccole, più vicine a casa ma famose per essere sfortunatissime meteorologicamente, non si può scommettere. Superata Vicenza, la nebbia della pianura si dirada, ma le prime montagne restano avvolte da nubi stagnanti.

Durante il primo tiro (di viola...)

Recoaro Terme: il cielo è inesorabilmente coperto e fa freddo, ci sono anche chiazze di neve qua e là nei campi. Saliamo di quota, 1000 metri, 1200... la nebbia si fa più fitta, già temiamo di doverci rassegnare ad una visita all'Ossario del Pasubio: atmosfera e temperatura sarebbero perfette! Ma anche questa volta la montagna si dimostra benevola con noi.

Poche curve prima del Passo di Campogrosso, sbuchiamo fuori dalla coltre grigia, rimasta come incastrata fra gli alberi nei fianchi più alti della valle. La luminosità del cielo subito è schiacciante: gli occhi impiegano qualche istante in più per mettere a fuoco le pareti rocciose di Baffelan e soci. Se ne stanno lì, crogiolandosi al sole coi piedi immersi nel mare di nuvole. Ci aspettano a braccia aperte!


Monte Baffelan

Fuori dalla macchina ci sono comunque 4 gradi; il sole scalda, ma non certo da stare in canottiera! Del resto siamo soltanto a 1400 metri, non a 2000... Ci incamminiamo sulla strada e poi il sentiero, in alcuni punti ghiacciato, verso la base della possente parete est del Baffelan; una cordata sta iniziando la salita, probabilmente sulla facile via Verona - Vicenza.

Lo spigolo est del Primo Apostolo

Presto compare anche il Primo Apostolo, di dimensioni decisamente ridotte, con lo spigolo aereo ed elegante su cui corre la nostra via tutto al sole. Ci dividiamo in due cordate, lasciando un paio di zaini all'attacco (da cui si ripassa anche in discesa). Attacca Luca il primo tiro, che parte su una placca dall'apparenza poco solida, ma in realtà affidabile.

Luca Z sul primo tiro

I chiodi non sono lontani, alternati da ottime clessidre. Questi 50 metri di tiro valutati IV+ (in alcune relazioni V, che ci sembra più verosimile) presentano un bel campionario di arrampicata su calcare: la placca delicata, il lieve strapiombo da aggirare, un corto camino, un traverso atletico su clessidra... mentre stiamo a guardare e fotografare lo Ziliotti alle prese con tutto questo, ci rendiamo conto che l'ombra del Baffelan sta avanzando, coprendo la nostra parete come una chiazza di inchiostro rovesciata su un foglio bianco.

L'ombra avanza...

Sono da poco passate le 11, tutte le pareti est che vediamo si godono ancora il sole, ma noi dobbiamo fare i conti con questo vicino a dir poco ingombrante. Parte Fede da secondo, Mario lo segue a distanza da primo. Il tiro è ormai tutto in ombra, e i 4 gradi effettivi (di temperatura!) si fanno sentire tutti, specialmente sulle mani. La piazzola all'attacco da cui faccio sicura per un po' resta al sole; spostandomi un po' all'indietro riesco ad inseguirlo, ma non posso scendere dal ghiaione, e nemmeno mettermi qualcosa in più addosso siccome Mario non ha un posto comodo per fermarsi.


Quando è il mio turno quindi sono già bello carico di freddo. Mario in via del tutto straordinaria mi ha lasciato in custodia il suo zaino, non certo famoso per la leggerezza... e nella prima parte del tiro faccio piuttosto fatica; riesco ad apprezzare di più l'arrampicata dal camino in su. Una volta in sosta restituisco a Mario il fardello, le cinghie belle strette per aderire alle mie misure da modella, e parto per il secondo tiro con tutta la ferraglia.

Panorama verso il Pasubio


Qui è un po' l'inverso... parto bene, Federico dall'alto mi dà preziose indicazioni sul percorso. Poi però mi incarognisco su un diedro con chiodo un po' basso: un passaggio di IV che nelle ultime uscite avrei superato senza tanti preamboli. Cerco di piazzare una protezione in più, ma non trovo i posti giusti... perdo una marea di tempo. Il tiro poi non è ancora finito, e poco più su mi trovo in una situazione simile. Ci arrivo in fondo piuttosto stanco.

Mario in arrivo alla seconda sosta

Anche Mario a salire ci mette un po', e tempo che entrambi siamo in sosta, Luca e Federico hanno già superato entrambi il quarto tiro, quello col passaggio chiave. Il terzo non è difficile, ma nemmeno intuitivo come linea da seguire sullo spigolo... il singolo chiodo in 30 metri non aiuta di certo. Mario sale con la dovuta cautela, tenendosi il suo zaino per pietà o abitudine, io provvedo a raggiungerlo in fretta perché mi preoccupa un po' il tiro successivo.

Terzo tiro

La sosta è alla base di un nasone strapiombante, caratteristica più lampante dello spigolo; la via lo aggira da destra con un passaggio iniziale in breve strapiombo seguito da una placca verticale, e traverso finale a destra sul comodo terrazzo dove il breve tiro termina. Ormai mi sono acclimatato e mi sento di andare io da primo. Complici le prese ottime e i tre chiodi presenti prima delle difficoltà, riesco a salire bene e in fretta, usando anche una clessidra e un friend indovinato al primo colpo.

Mario sul quarto tiro

Mario arriva e attacca il quinto tiro, che dopo la partenza (IV, due chiodi) segue una cengia a sinistra rispetto allo spigolo, per poi salire di nuovo verticale (fessure per friend) fino all'ultima sosta, un po' meno comoda rispetto allo standard della via. La parte ripida dello spigolo è conclusa, resta da percorrere un breve ma intenso tratto di cresta, con passaggi esposti e un paio di chiodi.

Io sulla cresta finale

Sostiamo su spuntone poco prima dell'inizio dei pini mughi, nei quali una traccia ci porta a congiungerci con il sentiero 149, che imbocchiamo a sinistra; in breve, dopo una galleria, raggiungiamo il passo del Baffelan. Qui per ripido canale (con tratto finale attrezzato) raggiungiamo in 20 minuti circa l'attacco, pochi metri sopra il limite della nebbia.

venerdì 4 dicembre 2015

Via Bucce d'Arancia al Paretone di Arnad

Data uscita: 15 novembre 2015

Punto di partenza: Parcheggio lungo la statale presso Arnad

Durata: 4 / 5 ore

Dislivello in salita: 240 la via

Grado di difficoltà: D+ (un passo di 6a, due o tre di 5c)

Chiodatura: A spit mediamente distanti, più vicini nei tratti difficili

Punti d'appoggio: Osteria l'Arcaden (possibile parcheggiare anche lì)

Esposizione della via: sud-ovest

Periodo consigliato: Primavera e autunno

Avvicinamento: Dal parcheggio lungo la statale (sulla destra, appena prima di Arnad), si sale con il sentiero segnato per circa 20 minuti fino alla base della parete. La via Bucce d'Arancia è la prima che si incontra.


Sul sesto tiro della via Bucce d'Arancia

Il dado è tratto. Attraversando il Po a Piacenza, ci domandiamo: ma ne varrà davvero la pena sorbirsi 500 km abbondanti di autostrada, in una giornata breve e nebbiosa di novembre, per arrampicare sul granito? Ammazziamo la noia con le chiacchiere: dopo i fattacci freschi di Parigi ce n'è da discutere; qualcuno si infervora, il sottoscritto (nonostante le male voci, indiscutibile punto di riferimento in materia di strade) si distrae, ed ecco che sulla tangenziale ovest di Milano ignoriamo il bivio giusto e ci ritroviamo diretti al Lago Maggiore invece che a Torino.

La chiesa di Machaby

 
Riusciamo a limitare i danni imboccando la prima uscita, per poi attraversare verso sud i ridenti paesini dell'hinterland milanese (Arluno e dintorni) pieni di dossi killer e semafori. Di nuovo sull'A4, ci preoccupa ora la nebbia: Novara, Viverone, Ivrea... si sarà riuscita a infilare persino dentro la val d'Aosta?

A Pont San Martin usciamo, e risaliamo la statale; le nuvole sembrano diradarsi da un momento all'altro, il problema è che ormai siamo arrivati! Ma oggi sarà una giornata fortunata. Appena oltre la svolta della valle dominata dal forte di Bard, la nebbia scompare e davanti a noi, vicinissimo alla strada, si innalza il paretone di Arnad: ancora all'ombra, ma con sopra il cielo pressoché sereno.


Il forte di Bard fra la nebbia
Scesi dalla macchina, constatiamo subito il freddo pungente, che se non altro ci spinge a prepararci alla svelta e buttarci su per il sentiero di avvicinamento in ripida salita con tanto di piumino addosso. Questione di 5 minuti, e sentiamo arrivarci addosso una folata di aria calda, tipo forno aperto in una stanza fredda. Le ventate dolci si fanno più frequenti passo dopo passo, riempiono ormai tutta l'aria finché non ci ritroviamo una volta per tutte sopra il campo d'inversione termica, con 10 gradi in più rispetto al parcheggio.

Siamo abbastanza increduli: i piumini finiscono subito nello zaino, dove rimarranno tutto il resto del giorno! Guardando il fondovalle ancora vicino, scorgiamo sia la nebbia proveniente dalla pianura infrangersi contro il forte di Bard, sia la patina di aria fredda coricata di fianco alla Dora Baltea. Oggi sul paretone di Arnad si arrampica in maglietta anche all'ombra!

Appena finito il sentiero di avvicinamento, a circa 30 minuti dal parcheggio, ci ritroviamo di fronte al naso la targhetta con il nome della via che intendiamo percorrere: Bucce di Arancia. Una cordata è appena partita, un'altra da tre è un tiro più su... e mentre noi aspettiamo di partire, arrivano altre 5 persone, che scoraggiate dalla coda cambieranno itinerario.


Quarto tiro

Partono Alberto e Federico, Mario ed io li seguiamo. Bello pensare che a inizio stagione le cordate sarebbero state miste, mentre ora possiamo affrontare la via in autonomia, lasciando comunque che siano i due più esperti a testare i vari tiri. Il primo fa subito prendere confidenza con il tipo di roccia, con lame e fessure per le mani, e gradini a volte molto piccoli per i piedi, costretti spesso a lavorare in aderenza. Verso la fine occorre aggirare a sinistra uno strapiombino con traverso delicato (5b).

Primo tiro, Alberto sotto lo strapiombino

Gli spit sono a distanza giusta, meno frequenti sul facile, le soste tutte comode su catena con anello di calata. Il secondo tiro comincia con un facile traverso a sinistra per poi salire in verticale seguendo due belle fessure (5c). La roccia è solidissima, ruvida, generosa. Dalla seconda sosta traversiamo delicatamente a destra (5a), poi seguiamo una placca più facile con roccia molto lavorata (IV), quasi cancrenosa, bellissima da vedere e da stringere. Spit abbastanza distanziati qui.

Mario all'inizio del quarto tiro

Quarto tiro: rimontiamo il facile spigolo a gradoni sulla nostra sinistra (IV-) fino a un boschetto, che risaliamo con facile sentiero fino alla nuova sosta, alla base di un canale. Qui la via Bucce d'Arancia si mantiene sulla destra, seguendo il canale che man mano va assumendo le fattezze di diedro. Ed è un diedro tosto, con la parete a sinistra (dove ci sono gli spit, per fortuna vicini) che verso la fine diventa quasi del tutto liscia (5c).


Io all'uscita del diedro del quinto tiro

La sosta molto comoda su un boschetto pensile è il preludio al tiro chiave della via, il sesto. I primi passi sono i più difficili: occorre tirare su tacchette dove ci stanno poco più che le dita, su appoggi aleatori per i piedi... alcune relazioni danno 5c, ma un 6a+ ci sta tutto. Si può azzerare questo primo passaggio con il rinvio, ma tutto il tiro è sostenuto.

Sesto tiro: l'inizio...

Un chiodo un po' vecchio può essere utile per una rinviata psicologica per raggiungere con passo delicato lo spit poco più su e uscire presso su un terrazzino con pianta (5c). Ma il tiro non è ancora finito... Si rimonta un pilastrino meraviglioso per poi uscire in forte esposizione a destra in prossimità della sosta (stare bassi, appigli svasi, 5c). Se non mi fosse scivolato (diciamo così) il piede su uno spit, sarebbe stato il tiro più difficile che abbia fatto finora da primo su una via lunga!

...e la fine

Il settimo tiro, dopo la partenza verticale (5a), sale facilmente a destra fino a un gruppetto di piantine. Concateniamo i due tiri successivi: il passo più tecnico è all'inizio, con una bella fessurona che chiama la dulfer (5b), dopodiché la parete si appoggia definitivamente, e l'arrampicata è un divertente defaticamento su lame sempre più grosse (IV-). L'ultimo tiro è facile e conduce all'orlo arrotondato della parete.

Penultimo tiro

Continuando a salire, raggiungiamo un punto panoramico, affacciato sulla valle di Machaby con i suoi borghetti e una cascata. In prossimità del gruppo di case più alto, incontriamo una coppia a cui chiediamo informazioni sul sentiero di rientro. La faccia e la voce di lui a dire il vero non ci sono nuove, ma ci è mancato un soffio che ce ne andassimo senza aver capito chi fosse.

Trova l'intruso!

Si tratta dello skyrunner Bruno Brunod, che tutti e quattro per pura coincidenza avevamo conosciuto il martedì precedente in un film della rassegna del Cai di Parma su Kilian Jornet: un suo collega più giovane che nel 2013 ha battuto il suo record di tre ore e un quarto da Cervinia al Cervino... e ritorno! Una volta riconosciuto Bruno, ci scambiamo volentieri due chiacchiere anche se è tardi, e facciamo tutta la discesa nella bella valle di Machaby meravigliandosi di una coincidenza così fortunata. Degna conclusione di una giornata spettacolare!

Il ponte romano (eh già) di Pont Saint Martin

lunedì 23 novembre 2015

Via Detassis al secondo torrione della Corna Rossa. Arrampicare in Brenta a novembre

Immagina se ancora fosse vivo: a passi lunghissimi entra in una palestra di Boulder, il fumo della pipa fra la barba lunghissima riempie lo stanzone, ragazzini tossiscono... tre colpi di bastone, cala il silenzio:
 << Se rampega prima cola testa, po' coi pei, e sol ala fin cole man!>>

Stavi per chiudere un blocco difficile, l'ultimo movimento per afferrare il top, quando ti accorgi con la coda dell'occhio di questa figura oltretombale, e ti viene a mancare il respiro: sbagli, cadi... ma non trovi il solito materasso, continui a volare, sempre più a lungo, sempre più veloce; l'accelerazione smisurata ti fa attraversare nuvole, galassie, decenni, finché davanti ai tuoi occhi non scorrono pareti di dolomia.

Ed è qu che atterri, su un esile terrazzino, una fune di canapa legata attorno alla vita: 50 metri sopra di te Bruno Detassis, ancora giovane e prestante, ti invita a salire, facendoti sicura a spalla. La corda sale quasi dritta, giusto un paio di chiodi ne indirizzano il tragitto. Tu cerchi di affrontare la parete seguendo la linea verticale, ma Bruno dall'alto ti grida di seguire quella cengia fin dove puoi, poi salire in diagonale, senza farti ingannare dalla placca sopra di te.

Non riesci a leggere la parete, sali d'istinto cercando le prese migliori, ed ecco che ti ritrovi sotto uno strapiombo... e non c'è verso di passare. Provi, riprovi, ma gli appigli sono troppo lontani. Di nuovo molli, non ce la fai più! La corda è in tiro, ma uno spuncione tagliente la lacera, voli di nuovo, riattraversi lo spazio e atterri sul materasso famigliare, le prese di resina robuste e colorate sopra la tua testa.




Dati della via
Data uscita: 7 novembre 2015

Punto di partenza: Parcheggio Vallesinella (1513)

Durata: 6,5 / 7 h (1,5 avvicinamento, 3,5/4 la via, 1,5 rientro)

Dislivello in salita: 575 avvicinamento, 250 la via

Grado di difficoltà: D (IV, un passaggio V-)

Chiodatura: Alpinistica, chiodi ben presenti ma non sempre affidabili nei passaggi più difficili. Soste quasi tutte su due chiodi. Un paio di varianti spittate raddrizzano la via.

Punti d'appoggio: Rifugio Graffer abbastanza vicino al termine della via (aperto tutto l'anno)

Esposizione della via: sud

Prima salita: Bruno e Nella Detassis, settembre 1942

Periodo consigliato: Da maggio a ottobre, se fa caldo anche dopo, come nel nostro caso!

In sosta. Sullo sfondo lo spigolo su cui corre la via Detassis Vidi

Avvicinamento: Dal parcheggio di Vallesinella (a pagamento nei mesi estivi, non a novembre) seguire il sentiero diretto al rifugio Graffer. Si superano gli alpeggi di Malga Vallesinella di Sopra, il bosco si fa più rado e ci si trova ai piedi della Corna Rossa. Il sentiero (segnavia 382) svolta bruscamente a sinistra, e lo si abbandona seguendo un faticoso ghiaione verso le pareti. Imboccare una traccia sul prato puntando al secondo torrione, più piccolo del primo. La via attacca sulla destra del secondo torrione, nei vicino a un profondo canale.

Faticoso avvicinamento fra i mughi

Racconto
Attraversare in novembre Madonna di Campiglio è un po' come vagare per la città nel pieno di quegli agosti di non tanti anni fa, quando ancora la maggior parte dei comuni mortali era tutta in ferie. Qui le cose non sono ancora cambiate: la gente in vacanza preferisce venirci d'estate e inverno, tutta assieme; e gli operatori del turismo si adeguano volentieri.



C'è già la didascalia!

Il risultato è che nelle stagioni morte, come ottobre e novembre, alberghi impianti e rifugi (salvo rare eccezioni) restano chiusi, e questi splendidi luoghi rimangono appannaggio di pochi amanti della montagna. In genere escursionisti affascinati da colori caldi e cieli limpidi, ma pure qualche alpinista in cerca di pareti baciate dal sole. Ci sarebbero anche i cacciatori, ma non li annovero fra gli amanti della montagna.

Autunno in Brenta * (foto Mario)
Arriviamo al parcheggio di Vallesinella poco dopo le 9, e scopriamo con piacere che non dobbiamo pagare alcun obolo: i gabbiotti sono chiusi e il parcheggio è quasi vuoto. Mario ricorda con amarezza quel giorno dello scorso agosto in cui, diretto al Campanile Basso, non trovò posto qui e dovette lasciare l'auto in paese a Madonna - con relativa pettinata - per poi ritornare su in autobus!

La Corna Rossa *

Ci incamminiamo, fa fresco e il cielo è velato; le pareti della Corna Rossa sono ancora all'ombra, sovrastate da quelle ben più imponenti di Castelletto e Cima Sella. Raggiunta la Malga Vallesinella di Sopra, finalmente le velature si diradano, il sole inonda la valle con i larici ancora gialli; sullo sfondo scintilla il ghiacciaio dell'Adamello, con le piramidi di granito di Caré Alto e Presanella. Una settimana fa eravamo da quelle parti a faticare sulla neve, oggi vogliamo spassarcela sulla roccia!


Ghiacciaio dell'Adamello: a sinistra il Carè Alto
Raggiunta la svolta del sentiero 382, lascio lo zaino con un po' di materiale inutile dentro, mentre Mario tiene il suo. Il ghiaione che conduce ai piedi delle pareti, sotto il sole battente, è piuttosto traumatico, ma la visione degli spigoli elegantissimi ci conforta. Una cordata da tre è appena partita su una via più difficile sulla parete del primo torrione. Si scala in maglietta in questa Estate di San Martino!

Cercando l'attacco

La nostra intenzione iniziale era di salire la via Detassis Vidi, ma facciamo una gran confusione con le relazioni: questa via infatti sale sull'evidente spigolo a destra del primo torrione, mentre noi attacchiamo il secondo, dove l'unica via presente è la Nella Detassis, che comincia vicino al canale a destra del secondo torrione, seguendone grosso modo lo spigolo.

Al centro della foto, il secondo torrione

Tutto questo mi diventerà chiaro solo ora che sto scrivendo, 10 giorni dopo i fatti... allora, ansioso di salire, ho seguito una linea verticale sopra a un chiodo con cordino, in tasca la relazione della Detassis/Vidi. Pensando di incontrare del III mi sono ritrovato a vagare su per la parete - con passi che III non erano! - fino a incontrare dopo almeno 40 metri uno spit: qui ho capito di avere incrociato la via Nella Detassis e ho sostato, per recuperare Mario e decidere insieme il da farsi.


Inizio del nostro primo tiro (notare il cordino) *

Tutto questo ricercare ci ha fatto buttare molto tempo prezioso, in un attimo si è fatta l'una. Non troviamo nello zaino di Mario la relazione della Nella Detassis, per un attimo sposiamo l'idea di calarci, ma poi la relazione salta fuori e scegliamo di andare avanti. Salgo circa 20 metri e trovo una nuova sosta su due chiodi nuovi. Recupero Mario per evitare troppi attriti.


Ancora non sappiamo esattamente a che punto della via ci troviamo: continuo a salire puntando vagamente lo spigolo, trovo un diedro nero con chiodo di cui si parla nella relazione e sosto qui. Sopra di noi vediamo un grosso pino mugo sullo spigolo, e intuiamo finalmente la linea di salita della via. Ho però sostato per due volte a metà dei tiri, e ora mi trovo a dover recuperare un po' del tempo perso.

Mario sullo spigolo nel secondo tiro

L'arrampicata dopo il diedro nero è facile e divertente, sul filo dello spigolo. Alla sosta fra secondo e terzo tiro, posta sullo spigolo dritto sotto il mugo (una variante a spit sale verticale), decido di proseguire, affrontando per una decina di metri un delicato traverso a sinistra. Faccio qui sosta su due chiodi e una piccola clessidra.

Si fa con quel che c'è...

Mario mi raggiunge e tira la mezza lunghezza presente, che inizia con una bella fessura (due chiodi, IV). A un certo punto sento cadere qualcosa dall'alto: penso a un sasso, ma il rumore è più delicato... mentre mi vola davanti al naso, riconosco il foglio piegato con la relazione, scivolato dalla tasca di Mario! Per fortuna si deposita su un terrazzino pochi metri sotto la sosta, e lo recupero abbastanza facilmente grazie all'alluce opponibile. Si usa proprio tutto in via! Mario può ripartire, e si riporta verso destra fino al famoso pino mugo; appena oltre, sul lato in ombra dello spigolo, c'è la quarta sosta.

Il traverso iniziale del terzo tiro (o finale del secondo per noi)

Se Dio vuole, ora possiamo seguire la via tiro per tiro in modo regolare! Mi aspetta la lunghezza chiave, Mario ha deciso che oggi fa lo sherpa! Il diedro, unico passaggio di V- della via, è ben chiodato, ma fa sudare ugualmente.

Il diedro *

Anche perché superato il primo passaggio in leggero strapiombo, le difficoltà non terminano... una placca delicata, una fessura con un chiodo non proprio stabile, l'uscita a destra in piena esposizione... e poi di nuovo sullo spigolo col sole in faccia. Veramente bello e sostenuto!

In sosta sul quarto tiro

Quinto tiro, ancora spigolo: ormai ho preso confidenza con la roccia, scaldata dal sole pomeridiano, e guadagno metri con scioltezza senza preoccuparmi tanto delle protezioni, che del resto sono scarse. Trovo due chiodi nuovi su un bel terrazzo: una sosta perfetta, ma la relazione dice di traversare a sinistra per 10 metri e sostare alla base di una fessura.

Il traverso iniziale del sesto tiro (finale del quinto per noi!)

Allora traverso sulla facile cengia, però alla base della fessura non c'è nulla! Non ho voglia di tornare indietro, e perdo minuti preziosi di sole nel decidere dove piazzare i friend di Mario. Il sesto tiro è lungo, quasi tutto sullo spigolo, con passaggi più tecnici (IV+) e chiodatura essenziale. Mario mi comunica che ha già visto il tramonto, e tra un movimento e l'altro butto veloci occhiate sul ghiacciaio dell'Adamello, dietro il quale il sole sembra volersi da un secondo all'altro assopire. La parete ormai è tutta in ombra, ma siamo ancora in maglietta e ci manca pochissimo alla fine delle difficoltà.

Uscita dal sesto tiro
 
L'ultimo tiro è per Mario, e c'è ancora spazio per passaggi estetici sullo spigolo e un traverso esposto sull'intera parete, poi facili roccette ci conducono in cima. Di solito l'uscita da una via è un momento in cui scaricare la tensione: ci si guarda attorno, si mangia qualcosa, ci si scambiano impressioni... oggi non ce lo possiamo permettere, siccome il buio incalza e la prima parte di discesa non è banale.

Traverso sul settimo tiro

Indossiamo la frontale e procediamo in una sorta di conserva lunga. Il rifugio Graffer, meno vicino di quanto sperassimo, è illuminato e ne giunge un insistente abbaiare di cani. Traversiamo sotto a un cavo di ferro sospeso fra primo e secondo torrione, usato forse da qualche funambolo; poco dopo saliamo sulla facile cresta e la seguiamo fino a un salto di una decina di metri, sul quale disarrampichiamo (I) fino a raggiungere un profondo intaglio.

Tramonto dietro il Carè Alto

Il buio qui sotto si fa più avvolgente, e il sentiero da seguire non è chiaro... non possiamo permetterci di sbagliare a questo punto, e per fortuna facciamo la scelta giusta: uno stretto passaggio fra due rocce ci conduce subito su una larga cengia coperta di neve, lungo la quale corrono rassicuranti impronte!

La neve è poca ma sfondosa, le mie scarpette in goretex fanno il loro buon lavoro. Il sentiero purtroppo al buio non è chiaro, le impronte sembrano prendere direzioni diverse e ci ritroviamo a seguire quelle di un gregge di ungulati. L'altopiano del Grostè ha una struttura geologica di origine glaciale, caratterizzata da piani sovrapposti dolci da un lato e ripidi dall'altro; un po' come le cenge sulle pareti circostanti, ma spostate su una dimensione orizzontale.

Rispettare una direzione in linea retta su questo terreno non è scontato, in quanto si tende a proseguire in spiano continuando a traversare accanto al salto di roccia di turno. L'abbaiare ininterrotto de cani comunque ci segnala che il rifugio, non più visibile, è sempre più vicino. Finalmente svalicato un crinaletto più alto degli altri lo vediamo, e vi ci dirigiamo dritti per dritti.

Man mano che ci avviciniamo, le urla e le ombre dei cani si fanno sempre più minacciose: sembrano schierati davanti alla costruzione in assetto di battaglia. Arrivati a un centinaio di metri di distanza, capiamo che proseguire è rischioso, e ci mettiamo a urlare se c'è qualcuno... nessuna risposta. Andiamo allora presso la stazione intermedia della cabinovia Grostè, dove sistemiamo le corde continuando a fare del casino, ma i cani ne fanno di più.

Scuri aperti al rifugio Graffer!
Finalmente sentiamo un fischio: il rifugista c'è, possiamo avvicinarci senza il rischio di essere sbranati! Non so se fosse più sorpreso lui nel vedere arrivare due persone a quest'ora, o noi nel trovare un rifugio aperto a novembre a Madonna di Campiglio! E c'erano pure altri due ospiti. Birra d'obbligo e piacevole chiacchierata col rifugista, argentino appassionato di ghiaccio con altre esperienze nei rifugi lombardi e andini, poi ci tocca ripartire.

Non senza passi falsi, troviamo l'imbocco del sentiero 382, comodo e ben battuto. Non c'è la luna, e nello scendere possiamo goderci una stellata d'alta quota autunnale senza nemmeno la giacca addosso. Raggiunta la curva secca da cui parte la traccia per le pareti, ci mettiamo a sondare i vari cespugli in cerca del mio zaino: per fortuna lo ritrovo abbastanza in fretta.


Ultime luci su Cima Grostè
 
L'anello è concluso, conclusa una giornata speciale. Bruno Detassis da cime ben più alte ci avrà forse regalato uno sguardo, sorpreso di vedere ancora in pieno novembre persone arrampicare in maglietta sul suo Brenta.

giovedì 12 novembre 2015

Affondo mancato alla cima Cop di Breguzzo, dal Lago di Malga Bissina


La Cima Cop di Breguzzo è il tremila più a sud nel gruppo dell'Adamello, e di conseguenza quello più vicino in linea d'aria alla mia città. Un tremila tondo tondo, tanto che qualche malalingua sostiene addirittura la sua altezza sia stata camuffata dagli austriaci ai tempi della Grande Guerra, per potervi indirizzare maggiori rifornimenti di armi.

Cresta sud-ovest di Cima Cop di Breguzzo

Una meta piuttosto ambiziosa per un'uscita in giornata il primo di novembre; ma siamo ansiosi di tornare in alta quota e pestare un po' di buona neve, e decidiamo di provarci. Almeno della neve ci leveremo sicuramente la voglia!


Cima Bissina, versante nord

Partiti prima delle 5 da Parma, raggiungiamo il Lago di Malga Bissina (1780), ancora avvolto nell'ombra, poco dopo le 7.30. Solo un'altra auto ci ha preceduto. Costeggiamo il lago con la sterrata pianeggiante, un poco noiosa ma adatta per scaldarsi, anche se tutto sommato non fa per niente freddo. L'aria è pulita, gli alberi colorati dall'autunno, le vette innevate creano uno scenario a dir poco meraviglioso.



Giunti a Malga Breguzzo (1806), alle porte della val di Fumo, abbandoniamo il sentiero principale per il 223, diretto al passo di Breguzzo. Fin da subito l'avanzare si dimostra complicato: il versante è a ovest, tutto in ombra, il ghiaccio ricopre alcune rocce alternandosi con il fango, il sentiero sale ripido senza tanti complimenti e con i segnavia ridotti all'essenziale. Sembra che su di qui ci sia davvero poco passaggio.

Ghiaccio sul sentiero

Raggiungiamo un pianoro glaciale a quota 2100 circa, dove si incrociano tre sentieri: a sinistra il 248B per il rifugio val di Fumo, a destra il 249 per le Porte di Danerba, diritto lungo la valle il nostro 223. Inizialmente attraversiamo una zona paludosa, per poi costeggiare il torrentello ricco di meandri. Il passo è ancora lontano, compreso fra le pareti nord innevate di Cima Danerba e Corno di Trivena e le creste spoglie sud ed est del Cop di Breguzzo.

Presso il bivio. Sullo sfondo Corno di Trivena
 
La neve copre sempre più porzioni di terreno, è dura, suona acuta sotto gli scarponi. Sembra tutto perfetto... ma ecco che di fronte, e presto tutto attorno a noi si distende una pietraia interminabile, che il sentiero attraversa senza un percorso definito: di fatto avanziamo saltando da un sasso all'altro, sfruttando i pochi ponti di neve dura che sembra sostenere il nostro peso.

Una sassaia interminabile!!
 
La neve però è sempre di più, e salendo di quota, anche se siamo ancora all'ombra, si fa meno portante. I sassi dal canto loro sembrano non voler finire mai... Indossiamo le ghette e iniziamo a battere la traccia cercando la via migliore in mezzo a questo labirinto. Dopo un po' però prevale la voglia di spostarci sul versante ripido a destra, quello a nord, dove sono scese diverse valanghe.

Traverso sul versante nord
 
La neve rimestata si dimostra più dura, ma non di molto, e la pendenza si fa al limite per procedere senza ramponi. Terminato il traverso, rieccoci in mezzo alla valanga di pietre, ormai totalmente coperte di bianco. Cerco di seguire le schiene dei sassi, dove la neve è più abbondante e minore è il rischio di cadere in una buca. A ogni passo ormai sprofondiamo quasi mezzo metro, e la fatica si fa sentire prepotente!

Traccia contorta
 
Ci imponiamo comunque di raggiungere il sole per fare sosta, e quando i raggi ci scaldano ormai siamo quasi arrivati al passo. Un'ultima impennata nel canale (circa 35 gradi), con tanto di filo spinato vecchio di 100 anni, e ci affacciamo sul versante della val Rendena dai 2768 metri del Passo di Breguzzo.

Ultimo canalino (cavo presente)

Il versante est, che ci aspettavamo di trovare pulito, si dimostra invece coperto a sua volta di neve, crosta non portante. Diamo giusto un'occhiata alla cresta sud, che sembra lunga e tutt'altro che semplice. E' l'una, siamo stanchi e il sentiero di ritorno è lungo e complesso, quindi optiamo saggiamente per fare retrofront.

La cresta verso il Corno di Trivena

Anche a ritorno ci manteniamo il più a lungo possibile sui pendii svalangati, ancora in ombra, poi cominciamo a cavalcare in discesa i sassi coperti di neve, sempre seguendo le linee convesse. Il sole è arrivato anche qui, luminoso e caldo a livelli quasi fastidiosi. I ramponi cominciano a raschiare i sassi, ci fermiamo a toglierli riparandoci all'ombra di un masso più grande (il primo novembre, a 2300 metri di quota, sottolineo).

Traverso improvvisato su erba per inseguire il sole
 
Dopo un tentativo poco fortunato di tagliare per i campi sul versante opposto, infestati da ginepro tagliente e nuove rocce, torniamo a valle in mezzo alla palude, poi di nuovo sulle rocce ghiacciate e infangate che il sole non ha fatto in tempo a lambire. Una fatica tremenda... Torniamo a Malga Breguzzo con il Caré Alto illuminato dagli ultimi raggi di sole, che nell'arco di pochi minuti cambia colore quasi in diretta, in stile Pop Art.

Carè Alto. Nessun filtro!

Ultimissimi raggi sulla parete

Luce finita!

All'auto arriveremo con il buio: siamo gli ultimi ad andarcene dal parcheggio, custode della diga escluso!

E buonanotte al Carè Alto